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Critica di Claudio Rizzi

Il ritmo è preciso e costante. L’altalena fluttua e incalza: i margini sono poli opposti e contraddittori. L’umiltà da un lato, la consapevolezza dall’altro. La ricerca e, opposto, il compiacimento. E tutto tradotto in pittura, la misura, lo sforzo, l’attimo; e dinnanzi il piacere del cervello, la silenziosa continuità senza forzare l’orizzonte.

Bertacco potrebbe flettere la consuetudine e scostare il sipario dell’arte maiuscola, quella che si eleva e si distingue, che incanta il silenzio. Ogni giorno potrebbe essere il cartellone della prima. I riflettori si accenderebbero d’un botto, il teatro sarebbe diverso, la platea zitta nel sospiro: tutto meglio rispetto all’applauso per la reinterpretazione della replica.

E il pubblico degli estimatori attende Tiziano, forse per una mattina, o in una notte, dopo discussioni accese con l’amico che ha scritto di lui, per vedere quell’opera, quella che può, che dipingerà, per portarselo in braccio come coccole, per tributare il successo che si riconosce ai grandi, alle generazioni che invecchiano il tempo e intralciano il passo, legate e avvinte a una società chiusa in meandrimanette.

Il romanzo dei suoi personaggi, fatto di volti e di veli, imperniato su pagine vive di tensione, rilegate sempre dall’orologio dell’esistere, racconta i capitoli dell’attenzione sensibile, divenne antologia di brani di vita e si colora del nostro riconoscersi nel già vissuto.

E come dall’autore giovane si attende il libro maturo, da Bertacco il momento di slancio senza distrazione, opere senza remore, vigore tutto.

Arte e liberà; ma stimare è lecito. E il gradimento implica poi richiedere come diritto.

E ti si incute premura, non importa: non fossimo noi, sarebbe comunque sempre il tempo.

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